Articolo a cura di Mariella Bisaccia – Senior Executive Coach, trainer e facilitatore, Mariella è un’esperta di coaching e formazione nell’area dello sviluppo della leadership, gestione del cambiamento, empowerment, Intelligenza Emotiva e Life Skills.
Quando ho iniziato a lavorare come Executive Coach, sedici anni fa, il termine ‘coaching’ era poco conosciuto, e ogni volta dovevo spiegare a interlocutori talvolta curiosi, più spesso scettici, di che cosa si trattava. Oggi è una parola diffusa e abusata, applicata a qualsiasi relazione a due finalizzata al miglioramento / allenamento / apprendimento (beauty coach, voice coach…), a rischio banalità.
In realtà il coaching è un metodo rigoroso e strutturato, basato su un ascolto profondo e sulla capacità di fare domande potenti, evocative, che ampliano la prospettiva e offrono nuove possibilità di scelta. Domande che spingono all'azione, all'assunzione di responsabilità, a intraprendere strade nuove.
Un primo passo, apparentemente semplice, per adottare un approccio di coaching con i propri collaboratori e colleghi è il passaggio dal dire al domandare.
Davanti a un problema, un imprevisto o una difficoltà delle nostre persone, la reazione immediata è dire cosa fare. Una modalità che garantisce efficienza, rapidità, omogeneità, sicurezza. Ci sentiamo competenti, ci sembra di avere tutto sotto controllo, ci stupiamo o ci arrabbiamo se poi le nostre indicazioni non vengono recepite o eseguite alla lettera.
Ecco 3 motivi per cui spesso questo approccio non funziona:
- Parte l’effetto navigatore satellitare. Se siamo bravi a dare istruzioni sul da farsi e teleguidiamo i nostri collaboratori passo passo, otteniamo rapidamente i risultati che ci servono. Diamo indicazioni molto precise sul cosa e sul come. Peccato che ogni volta dobbiamo ricominciare da capo, e ogni volta dare le istruzioni passo passo: abbiamo creato degli ottimi esecutori, autonomia zero! Pensiamo anche di aver delegato, ma continuiamo ad essere oberati e indispensabili, cosa che può essere estremamente gratificante per noi e comodo per i nostri collaboratori.
- Le indicazioni vengono interpretate diversamente. Esempio di vita aziendale vissuta: Anna ha difficoltà con un suo collaboratore, Luca, ultimamente poco motivato, spesso in ritardo. “Prova a parlargli”, le dice Marco, il suo capo, sottintendendo “ascoltalo, cerca di capire cosa c’è che non va, è sempre stato un validissimo PM”. Anna chiama Luca e gli dice: “se arrivi ancora in ritardo ti tolgo il progetto”. Era questo l’effetto desiderato?
- Le persone ci provano, ma non sono motivate. “Fate un report dettagliato delle riunioni interne settimanali, usate questo modello e fatelo a turno, così tutti sanno chi sta facendo cosa”. Andrea pensava di aver trovato la soluzione per monitorare il carico di lavoro del suo team, che ha anche iniziato ad adottarla con costanza. Peccato che poi il report sia diventato fine a sé stesso, un’incombenza in più: per le persone era più importante confrontarsi quotidianamente e intervenire tempestivamente sulle richieste dei clienti. Velocità e agilità per loro erano irrinunciabili. Il report interno era percepito come un’inutile formalità, fatto solo per accontentare il capo. E lentamente è stato abbandonato.
Leggi la seconda parte del percorso sul coaching: Come utilizzare concretamente l’approccio di coaching?